Molte persone potranno rischiare l’assegno della pensione di reversibilità perché l’INPS può negarla più facilmente. Ecco in quali casi.
Una nuova ordinanza della Corte di Cassazione riscrive il cronometro della pensione di reversibilità: tra prescrizione, ratei ormai sfumati e interessi che partono più tardi, l’INPS avrà gioco più facile nel dire “no”. Di conseguenza diverse persone rischiano di rimanere senza assegno.
Ecco cosa ha chiarito la Corte di Cassazione, come funziona la prescrizione e chi può perdere l’assegno della pensione di reversibilità in parole povere.
Il tempo, con le pratiche previdenziali, non perdona. Se stai rimandando la domanda di pensione di reversibilità perché “tanto è un tuo diritto”, sappi che l’orologio legale potrebbe già aver tagliato una fetta del tuo assegno. Quante volte hai pensato: “La faccio quando ho un attimo”? E se quell’attimo costasse anni di arretrati o, peggio, un rifiuto dell’INPS?
Partiamo dai fatti nudi e crudi: con l’ordinanza n. 23352/2025, depositata il 16 agosto 2025, la Corte di Cassazione ha dato una stretta sui tempi. Ha chiarito come funziona la prescrizione per la reversibilità, distinguendo tra ratei prescritti e ratei ancora esigibili, e stabilendo che gli interessi decorrono dalla domanda amministrativa (la famosa “messa in mora”), non dal giorno in cui i singoli ratei sono maturati. Tradotto: se presenti la domanda tardi, puoi dire addio agli interessi per tutto quel tempo di attesa, e una parte degli arretrati potrebbe essere evaporata.
La storia che ha acceso i riflettori è concreta: una figlia maggiorenne, inabile al lavoro e a carico del padre defunto, aveva chiesto la reversibilità. I giudici di primo e secondo grado le avevano dato ragione, ritenendo applicabile il termine di 10 anni per la prescrizione del diritto e considerando che le interruzioni fatte con la domanda amministrativa e poi col giudizio avessero salvato il salvabile.
Ma la Cassazione ha ribaltato il tavolo: quando l’INPS solleva la prescrizione, anche in modo non chirurgico, il giudice deve comunque stabilire d’ufficio il dies a quo (cioè il giorno da cui parte il conteggio), verificando quali ratei siano davvero “morti” e quali ancora vivi. Risultato pratico? Per l’ente è più facile far valere la prescrizione e farti perdere una parte della torta.
Gli “addetti ai lavori” lo ripetono da anni, e la Suprema Corte ha richiamato precedenti pesanti come Cass. Sez. Un. n. 10955/2022 e Cass. n. 24047/2022: l’inerzia del titolare è la miccia della prescrizione, mentre il punto di partenza del termine lo stabilisce il giudice con gli atti in mano. In più, la disciplina del termine quinquennale introdotta dal d.l. n. 98/2011 ha complicato ulteriormente il puzzle dei ratei arretrati: la giurisprudenza tende a distinguere tra il diritto alla prestazione (che può seguire il decennale) e i singoli ratei maturati nel tempo (che possono cadere nel quinquennio), con il rischio concreto che una parte degli arretrati venga tagliata se ti muovi tardi.
Ecco come si presenta, di solito, il problema nella vita reale: si perde una persona cara, si accumulano documenti, si pensa che, essendo un diritto, si possa chiedere quando si vuole. Magari si confidano arretrati corrisposti “tutti insieme” e con gli interessi. Intanto passano mesi, poi anni. Quando finalmente si presenta la domanda amministrativa, si scopre che gli interessi partono solo da quel giorno. E che una fascia di ratei potrebbe essere già prescritta.
Se poi l’INPS eccepisce la prescrizione anche senza puntare con precisione la data iniziale, il giudice – dice la Cassazione – deve comunque fare i conti e può darti torto su una parte, o addirittura negarti l’assegno se il termine di 10 anni dal fatto generatore è superato. Se sottovaluti il problema, le conseguenze non sono solo tecniche: rischi di perdere soldi veri, magari quelli che servono a pagare affitto, cure, bollette. Rischi un no dell’INPS quando pensavi di aver fatto tutto “a regola d’arte”. E più aspetti, più si assottiglia la porzione di arretrati recuperabile. È un imbuto di tempo: entra tanto, esce poco.
A rischio sono soprattutto i superstiti che confidano di poter “recuperare dopo”, quelli che non presentano subito la domanda o non interrompono i termini, chi non ha chiaro il requisito della vivenza a carico o dell’inabilità (per i figli) e chi non mette nero su bianco una messa in mora tempestiva. Lo spartiacque, dopo l’ordinanza n. 23352/2025, è che il giudice dovrà spaccare il capello: ricostruirà il dies a quo, dividerà i ratei prescritti da quelli esigibili, e farà partire gli interessi dalla prima istanza amministrativa.
È questo il cambio di passo che rende all’INPS più semplice opporsi: non serve un’eccezione di prescrizione scritta al millimetro, basta che sia sollevata; il resto lo fa il giudice con gli atti. La risoluzione, però, esiste e sta in una parola: tempestività. La prima mossa è presentare subito la domanda amministrativa e mettere in mora l’ente in modo tracciabile, perché è da lì che scattano gli interessi.
Se hai già maturato il diritto, agire blocca l’erosione del tempo. Verifica con un patronato o un legale previdenziale i termini applicabili al tuo caso: tra prescrizione decennale per il diritto alla prestazione e quinquennale per i singoli ratei (introdotta dal d.l. n. 98/2011), ogni mese può fare la differenza.
Raccogli documentazione solida su inabilità e vivenza a carico se sei figlio superstite, perché senza questi requisiti l’assegno non parte a prescindere dalla tempistica. Se ricevi un diniego, valuta – nei termini di legge – le strade di ricorso più adatte al tuo caso, senza perdere altro tempo. In sintesi: non rimandare, non improvvisare e non sperare che gli arretrati si salvino da soli. L’ordinanza n. 23352/2025 ha fissato paletti chiari su prescrizione e interessi; far finta di nulla oggi significa rinunciare a soldi domani. Agisci ora, metti un timbro alla tua posizione e fatti assistere da chi mastica ogni giorno di previdenza.
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